lunedì 28 maggio 2012

Il giochetto del folletto infernale

C'è qualcosa in queste notti...qualcosa che non mi piace.
Mi sveglio troppe volte, e tutte le volte mi sembra di essermi svegliata appena in tempo.
In tempo per cosa? 
Non lo so, forse, addirittura, in tempo per sopravvivere. Perché il senso di pericolo che sento è vicino...come se svegliandomi avessi interrotto qualcosa di terribile, qualcosa che ballava in camera mia, facendo rumore, rumore nero e pesante, qualcosa che ballava e rideva e protendeva le mani verso di me. 
Apro gli occhi e l'eco dei passi e del basso, rauco ghignare, sembra aleggiare ancora qualche secondo prima di svanire nel buio. Il cuore batte veloce, troppo veloce per non aver paura, i sensi all'erta, i brividi sulla pelle mi avvertono che sì, qualcosa c'era, ed è scappato via.
Maledetto folletto infernale, che prende forma dai pensieri più brutti, tristi, e di quelli si nutre, voracemente, senza riuscire mai a saziarsi. E mentre mangia, balla. Balla come se delle mie paure facesse una festa, come se ci fosse d'esser felici del mio terrore, e poi mi segue...mi segue anche quando il mio corpo dorme.
Così rimango immobile, con gli occhi aperti, e un vago senso di nausea a girarmi nello stomaco. Mi guardo intorno e quello che vedo e che è mio, non lo riconosco. Oppure lo riconosco ma vorrei cambiarlo, perché per qualche strana ragione, quando mi sveglio in queste notti, io mi sento lontana. Mi sento distante.
Forse è la risata fantasma della creatura buia, forse è la luce strana che entra dalla finestra, che anche a notte fonda sembra...troppa. Come se la notte non fosse calata del tutto, come se si fosse sempre a un passo dall'alba senza mai vederla.
Brutta...brutta quella nausea. 
Batte le mani, lo sento, il folletto infernale. Le batte prima dell'alba. Le batte per svegliarti e dirti che è ancora buio, che no, non è mattina, che sembra vicina ma invece è lontana. Che puoi accendere la luce se vuoi, ma il buio non se ne andrà.
Contro la notte ci vuole il Sole, e lui è nascosto. 
Forse è un'altra, strana dimensione, quella in cui mi sveglio. Una dimensione contraria, capovolta, che fa girare la testa e fa venire la nausea, come una vecchia giostra arrugginita su cui non è salito nessuno tranne me. 
Mi sento muta, muta e debole, la voce l'ha rubata il folletto, e mi ha rubato anche le ossa.
Sono fatta solo di carne, carne e sangue, quando mi sveglio in queste brutte notti. 
Il folletto lo sa, per questo ride; se ne va in giro facendo baccano, batte e ribatte le mie ossa per fare rumore, giocattoli nelle sue mani. 
Non posso sconfiggerlo, questo è il suo mondo. Un mondo alieno, eternamente fermo a qualche minuto dall'alba. Buio a un passo dalla luce. 
Posso solo sperare che si stanchi di giocare. 
Che se ne vada via, lontano. 
Che le sue mani non mi arrivino mai troppo vicino.


mercoledì 23 maggio 2012

Però si fa vedere

Non c'è molto da dire, quando guardi fuori e lo sguardo si appende alla luna. Una luna sottile, una parentesi disegnata nel cielo, o forse una zanna, magari un artiglio. 
Qualcosa che graffia o qualcosa che contiene, qualcosa che morde...
Non illumina la luna, stasera. Però si fa vedere. 

martedì 22 maggio 2012

Libera recensione - Il paradiso degli orchi, Daniel Pennac

E' strano, davvero strano il mondo in cui ci si trova leggendo questo libro. E' strano il modo in cui ci si sente "altrove".
I nomi delle città sono quelli che tutti conosciamo, eppure sembra un mondo diverso, lontano...a parte.
Forse è perché, in fondo, è così per tutte le vite, se ci si pensa bene. Solo che troppo spesso non ce ne accorgiamo, e il nostro altrove non lo esploriamo mai fino in fondo.
Qui invece in fondo ci si arriva, colpisce duro Pennac, in più occasioni. E' divertente e amaro, triste e inspiegabilmente allegro. Saggio, in un suo particolarissimo modo.
Pennac è tutt'uno con la sua penna e questo, si sente molto bene.
Bellissimo.

"La gente si volta al passaggio dello svitato con la testa ammaccata accompagnato dal cane che fa le linguacce. Ma anche loro, i passanti, non ne conoscono mica tante di storie che sian tutte a rose e fiori! E se la ridono, con la risata carnivora dell'ignoranza, la risata feroce della pecora dai mille denti." (Da: Il paradiso degli orchi, di Daniel Pennac)

sabato 19 maggio 2012

Melissa, 16 anni, è morta.

E' immediato. La sigla del telegiornale a un'ora inconsueta, e tutto si ferma. Tutto si gela.
Dall'11 settembre (ormai è diventata quasi una parola sola: UNDICISETTEMBRE, senza bisogno di aggiungere altro, tanto basta), o dalla guerra del golfo, per la mia generazione, quando sentiamo quella sigla tutto si ferma e corriamo al televisore più vicino che intanto sta dicendo TELEGIORNALE, EDIZIONE STRAORDINARIA, e rimaniamo così, col fiato sospeso e gli occhi sgranati, ad aspettare che qualcosa di terribile ci appaia sullo schermo. 
Non è così? 
La giornalista di turno inizia a parlare e noi ci perdiamo le prime parole perché non ce ne frega niente delle introduzioni, diamine dai, cosa è successo? Diccelo, e diccelo subito!!
E l'ha detto, anche oggi, l'ha detto. 
Con la tazza di caffè sospesa a mezz'aria, a metà strada tra il tavolo e la bocca, ho ascoltato quella maledetta sigla, e quella voce che diceva che c'era stato un attentato, a Brindisi, una bomba era esplosa davanti a una scuola mentre alcune ragazze erano appena scese dal pullman e stavano per varcare l'ingresso dell'istituto. Cinque o sei ferite gravi, una, Veronica, lotta disperatamente per rimanere in vita.
Una di loro, Melissa, 16 anni, è morta. 
Melissa, 16 anni, è morta.
Melissa.
16 anni.
E' morta.
C'è un attimo, quell'attimo in cui la notizia arriva come una sberla in faccia a chi la da e a chi l'ascolta, in cui tutto tace di un silenzio vivo e attonito, che sembra fatto di centinaia, migliaia, milioni di respiri sommessi. In quel silenzio siamo più umani di quanto non siamo stati da anni, di quanto non ricordavamo d'essere. 
In quel silenzio siamo tutti, davvero, uguali e vicini. 
Poi parte il susseguirsi di tamponamenti a catena delle notizie, tutto è confusione, tutto è aggiornamento dell'ultim'ora, immagini inedite degli istanti immediatamente successivi all'esplosione, si sente e si vede di tutto in internet e in tv, ai giornali radio. Scenari rubati dalle videocamere dei telefonini dei primi accorsi sul posto, grida, urla, nomi gettati al vento nella speranza che quel qualcuno risponda e invece...invece se ne sta lì sull'asfalto disseminato di quaderni e libri e zainetti bruciacchiati, immobile. 
Perché Melissa, 16 anni, è morta.
Le sue foto appaiono ovunque, il suo profilo di facebook diventa un muro su cui lasciare la propria firma; il suo bel volto, acceso di quella luce calda che solo a quell'età si riesce a catturare ed emanare, campeggia dietro ai giornalisti che riferiscono le prime ipotesi delle indagini partite a spron battuto per scovare i responsabili di questa tragedia. La rete si infiamma di commenti e di cordoglio, manifestazioni di solidarietà vengono organizzate in tantissime piazze d'Italia. Tutti parlano, tutti parliamo oggi, e nelle giornate come oggi, e nasce quella voglia di riunirsi, che sia sulla rete, su un profilo facebook o in una piazza poco importa. 
Nelle giornate come queste, nessuno vuole e deve essere solo. 
Melissa, 16 anni, è morta. Il suo respiro è stato spezzato lì, davanti a quel cancello che vedeva ogni giorno e che, tra poco, l'avrebbe salutata per lasciarle vivere l'estate meritata. La sua vita si è fermata dopo aver lasciato il sedile del pullman che centinaia di volte aveva occupato, e quando si è fermata aveva uno zainetto sulle spalle...uno zainetto pieno di libri e quaderni e i sogni abbozzati di una ragazzina che comincia a guardare al futuro e magari ne ha paura, sì, ma quanta voglia di camminarci in mezzo.
La luce, quella calda del suo bel viso, le è stata strappata via da un'esplosione che ha gettato il suo corpo per terra, come se non valesse nulla, come se lei non avesse 16 anni, come se lei non fosse una ragazza che avrebbe dovuto entrare a scuola, come se non l'avesse aspettata l'estate fatta di mare e sale e sabbia e sole, come se non avesse avuto un amore a cui pensare, come se non avesse amiche e amici così vicini da credere di avere lo stesso sangue nelle vene (perché è così che è, che deve essere, a quell'età), come se non appartenesse a questo mondo, come se non avesse fatto colazione quella mattina e non avesse avuto ancora il latte nello stomaco ad andarle su è giù, magari per la paura di un'interrogazione, come se non avesse pensato a come pettinarsi o vestirsi, come se non avesse dormito serena nel suo letto la notte scorsa, come se non avesse detto buonanotte ai suoi genitori, come se non avesse dei genitori, come se non fosse stata bambina e poi ragazzina, come se non avesse voluto diventare donna e magari avere dei figli, come se non avesse riempito lo zaino di libri, come se non avesse pettinato i suoi capelli, come se non si fosse sbucciata le ginocchia cadendo da bambina, come se...
Come se.
E' a questo che continuo a pensare, oggi. 
Melissa, 16 anni, è morta. 
E' morta perché qualcuno ha creduto che fosse sacrificabile in nome di qualche assurda ideologia criminale.
E' morta lasciando uno spazio vuoto in questo mondo, uno spazio che le era destinato e che avrebbe dovuto riempire e far crescere. 
Vorrei che la persona o le persone che l'hanno uccisa, inciampassero di continuo in quello spazio vuoto, in quella luce spenta, in quella stanza buia, in quel letto freddo che hanno causato. 
Vorrei che ci inciampasse la loro mente, così tante volte da farli impazzire. 
Vorrei che quello spazio vuoto rimbombasse di un silenzio talmente opprimente da fare un rumore assordante.
Vorrei questo e tante altre cose, oggi, mentre un'altra data si aggiunge alle centinaia da ricordare, come una cicatrice in più sulla pelle. 
Melissa.
16 anni.
E' morta.







venerdì 18 maggio 2012

La forma invisibile (pensiero del 17/03/2012)

A un certo punto bisogna pur chiedersi di cosa occuparsi, in una vita.
Bisogna chiedersi da cosa siamo attratti. Da cosa tutto di noi viene attratto: dallo sguardo all'anima, verso dove tendono ad andare le nostre parole, le nostre analisi, i nostri pensieri più profondi quando gli occhi catturano un'immagine, quando il naso annusa profumi od odori, quando le voci sfiorano le nostre orecchie.
Dove va, il nostro tutto, dove va? 
Dove va a sbattere la nostra lingua? A sbattere, battere e ribattere? 
A un certo punto bisogna chiederselo. 
A un certo punto bisogna che si abbia il coraggio d'esser noi stessi, quello per cui siamo stati creati, pensati, forgiati. Perché una forma invisibile c'era e noi l'abbiamo riempita prima di fiorire nell'utero di nostra madre. 
Da quel primo pianto urlato poi, cosa ne è stato? Ci sono stati i primi passi, le prime parole, i sì e i no...e le nostre mani a toccare, imparare, indicare.
Abbiamo mantenuto quella forma? Oppure l'abbiamo persa, durante il tragitto?
Bisogna che ce lo si chieda. 
Bisogna che ci si risponda con sincerità, nonostante la paura; nonostante quella forma a volte possa portare dolori, riserverà il respiro più grande e bello che potremmo immaginare: la libertà.
Perché ognuno è libero (lo credo fermamente, ora) solo quando è davvero se stesso, solo quando smette di dibattersi nel nulla che rischia di inghiottirlo e rientra in quella forma da cui ha avuto origine. 
Lì, troverà sempre le parole giuste. 
Lì, troverà il coraggio di seguire una strada anche quando non ci sono molte luci a illuminarla.
Ecco, credo questo, dopo quel qualcosa che mi ha profondamente cambiata, che continua a farlo e che se ne sta chiuso dentro di me, nascosto da tutti, soprattutto da chi ipocritamente crede di conoscermi. E questo pensiero che batte sui tasti del Pc attraverso le mie dita è qualcosa che parla a me e non solo, è qualcosa che va detto, perché altrimenti non sarei libera.
Ecco cosa c'è: i nuovi inizi, quelli veri, sono spesso silenziosi e cauti, somigliano più a brezza che a tempesta.




mercoledì 16 maggio 2012

E' il vento

5.30 di mattina, socchiudo gli occhi svegliata da un rumore soffuso ma insistente...è il vento.
Attraverso le listarelle della tapparella vedo gli alberi piegarsi sospinti da una forza potente.
E' il vento.
Ho sonno, eppure mi alzo e mi avvicino alla finestra, come se qualcuno mi chiamasse, alzo la tapparella e sbircio fuori attraverso il vetro: la luce dell'alba è qualcosa di meraviglioso, un imbrunire convertito e al contrario, che ti fa venire voglia di respirare a pieni polmoni, chissà perché.
La voce mi chiama, la sento, apro la finestra e ascolto il silenzio del divenire del giorno. Puro, meraviglioso silenzio. Gli alberi spinti dal vento fortissimo scuotono i rami e, potrei giurarci, sembrano divertirsi mentre danzano lontani dagli sguardi indiscreti dell'uomo.
Sorrido, mentre uno sbuffo di potente respiro si infila dalla finestra e mi sbatte sul viso e scoppio a ridere scossa da un brivido strano...così, tra la notte e il giorno, tra il buio e la luce, oggi ho riso, di cuore, anche se nessuno mi ha sentita.
E' il vento...

martedì 15 maggio 2012

Libera recensione - La vita accanto, Mariapia Veladiano

Un miracolo...o un colpo di fulmine.
Ecco tutto.
Questo è quello che accade quando tocchi un libro, lo annusi, osservi sulla copertina uno scorcio del mondo che contiene, leggi le prime righe ed è tuo.
Un dono, bellissimo, scoprire poi che la promessa del titolo, quella che ti aveva spinto per un attimo un po' più in là nelle emozioni, è stata pienamente mantenuta.
Questo è un libro che parla, parla molto chiaro, con le parole e con le sensazioni, con le immagini e con i profumi. Ti fa guardare il mondo attraverso un paio d'occhi che vale la pena di conoscere, se non altro per smettere di sentirsi in diritto di essere sempre così lontani dal dolore degli altri; se non altro per cercare di capire almeno qualcosa di come vanno (o non vanno) alcune vite...alcune vite accanto.



"Ogni tanto nasceva un disgraziato, così si diceva. A caso, dove capita capita, come la grazia di Dio, come un sasso scappato di mano a un giocoliere nell'alto dei cieli amen." (da: La vita accanto, di Mariapia Veladiano)


venerdì 11 maggio 2012

Certe giornate...


Certe giornate sono fatte apposta per pensare, anche se non vorremmo. E questo è un fatto. Un fatto a cui puoi cercare di sfuggire, inutilmente; un fatto che puoi accettare e andare incontro a pensieri che non vorresti formulare ma che si formano, ineluttabilmente, come nubi vaporose in un cielo azzurro.
Una di queste giornate mi è piombata addosso lunedì, pesante come un macigno, senza preavviso.
Senza preavviso perché quella era una giornata in cui avevo deliberatamente scelto di non pensare. Avevo preso un giorno di ferie, facendo i conti con i miei sensi di colpa (li ho sempre, quando si tratta di prendere ferie, non chiedetemi perché, sono fatta così) e vincendo, e avevo deciso che non mi sarei preoccupata di quanto avrei dormito alla mattina e che avrei passato il pomeriggio in una bellissima libreria di Monza.
E così ho fatto.
Ed è stato bello, bellissimo. 
Lunedì era, tra l’altro, una splendida giornata di sole sorta delle macerie meteorologiche del disastroso weekend, e il cielo sembrava spolverato e lavato di fresco.
Ho fatto il mio lungo giretto in libreria (che ha prodotto l’acquisto di due libri che cercavo da tempo e di cui, a tempo debito, vi parlerò!) e poi ho fatto una passeggiata per il centro, cercando di fare il pieno di aria tiepida e cielo azzurro, di bellezza e di piacevole calma.
E così, ho fatto anche questo.
Poi, nel tardo pomeriggio, ancora galleggiante in una mia rara interna quiete, ho ripreso la macchina per tornare a casa, dato l’approssimarsi dell’ora di punta era meglio muoversi prima per non rischiare di rimanere imbottigliati.
Esco dal buio opprimente del silo e mi tuffo nel traffico pomeridiano, distrattamente accendo la radio. Una serie di canzoni mi piovono addosso, ma nemmeno le sento perché sto guardando fuori dal finestrino: il mio intento non era andato a buon fine, ed ero appunto imbottigliata nelle vie brulicanti di passanti e automobili.
Bene anche così, ho pensato, mi guarderò un po’ in giro, a chi non piace guardarsi in giro, se può?
E l’ho fatto.
Dapprima soffermandomi sulle vetrine degli splendidi negozietti particolari, poi sui vecchi e signorili palazzi della zona vicino al centro. VENDESI TRE LOCALI, diceva un cartello appeso a una ringhiera, poco lontano, due signore stavano chiacchierando del più e del meno, con le buste della spesa in mano. Il suono di un clacson, l’urlo di un saluto e la risposta, poco più in là, persa tra i rumori della città.
Il cielo era ancora azzurro, ma le nubi, dentro di me stavano per arrivare.
Palleggiato da un angolo di città all'altro, lo sguardo scivola su una signora che posteggia la sua bicicletta in prossimità di un negozio di scarpe che promette prezzi stracciati e vertiginosi sconti su tutte le linee. 
La signora lega la sua bici e poi si passa le mani sulla gonna per sistemarne le pieghe. E’ una gonna semplice, un po’ rovinata agli orli, la sua bicicletta è arrugginita e scrostata in alcune parti. Ma la signora ha le spalle dritte e la testa alta, fa per entrare nel negozio, ha già le mani sulla manigliona nera quando un’esitazione la ferma, il suo sguardo cade su una bella bicicletta bianca e rosa, nuova o quasi, appoggiata al muro lì vicino, senza nemmeno il catenaccio a tenerla al sicuro dai ladri. La proprietaria certamente non avrebbe avuto problemi a comprarne un’altra qualora gliel’avessero rubata. La proprietaria non sarebbe certamente entrata in un negozio di scarpe dai prezzi stracciati.
Un groppo mi sale in gola, mentre la Signora (sì, con la S maiuscola) entra nell'ombra del negozio e fa i primi passi guardandosi intorno.
Improvvisamente lo so, quel groppo in gola è salito anche a lei. Forse, ha pensato quello che ho pensato io.
Guardo davanti a me, la coda di macchine si smuove, finalmente, mentre il giornale radio comincia a sputare fuori le sue notizie.
Alcuni dettagli di politica, dati di economia, numeri incomprensibili (almeno per me) di mercati italiani e stranieri e poi…
…ci sono stati altri suicidi, dice, per via della crisi. Non colgo i nomi delle città in cui sono avvenuti. Mi fermo sulle parole suicidi, disperazione, paura, debiti…
Il groppo in gola si fa più stretto.
La voce al giornale radio ci ragguaglia sul traffico, e poi soffia fuori una veloce previsione meteo, prima di interrompersi.
Può ricominciare la musica. Ma ormai è troppo tardi.
La coda di macchine si muove più velocemente, ora , mentre dalla radio le prime note di We are young,  il tormentone del momentoinondano l’abitacolo.
Il cielo non è meno azzurro, lo so. E forse proprio per quello mi fa così male.
Il cielo non cambia, è azzurro sulle guerre, è azzurro sulla fame, è azzurro fuori dalla finestra di chi disperato preme un grilletto contro se stesso.
E allora, mentre ormai sono uscita del centro e ho imboccato il viale Regina Margherita (quanto è splendido, in questo periodo dell’anno…) per tornare a casa, mentre dal finestrino aperto l’aria entra con più forza, sarà per l’immagine di quella Signora dalla gonna sdrucita e di quella sua esitazione carica di significato, sarà per quelle notizie gettatemi addosso dal giornale radio, sarà perché avevo scelto di non avere paura almeno per un giorno e invece non le si può sfuggire…sarà per il cielo, ancora e sempre azzurro, purtroppo o per fortuna, qualche lacrima mi è scesa. Dentro e fuori.
Perché le lacrime scendono sempre sia dentro che fuori. E quelle dentro fanno più male, perché graffiano, mentre vanno giù. 
E la musica esplode, e alzo il volume…e…

…chissà se quella Signora lo ha trovato, un bel paio di scarpe. Belle e comode. Magari a un prezzo stracciatissimo, ma favolose. Più belle di quelle che avrebbe potuto desiderare.




mercoledì 9 maggio 2012

Libera recensione - Ti prendo e ti porto via, Niccolò Ammaniti

Dietro la porta ci sono anche tanti, tantissimi libri. Quelli che ho letto e leggerò, quelli che mi piacciono oppure no. Dietro la porta c'è anche questo, perché anche di questo sono fatta io. E dunque ogni tanto, tra un pensiero e l'altro, sbucherà anche un libro, così come un amico bussa alla porta e comincia a parlare quando entra in casa. Io mi limiterò a riportare qui quello che quell'amico mi ha detto, con le parole e non solo, e chissà...magari in qualche modo, parlerà anche a voi.


Una faccia allegra, occhi tondi e sinceri, un sorriso quasi costante nascosto sotto una serietà d'animo. Una stretta di mano, forte e prolungata. Un incontro raro, un incontro che insegna qualcosa. Il genere di persona da cui possono arrivare solo consigli sinceri. Il genere di persona che mi ha consigliato, dopo aver ascoltato la mia volontà di scrivere e pubblicare romanzi, di leggere questo libro e altri di questo scrittore italiano.
E così ho comprato questo libro. Mi sono semplicemente fidata, ecco tutto. A volte bisogna pur farlo.
Due, dieci, venti, quaranta, cinquanta pagine e...e la mia mente era già lì: ecco, non mi piace, le solite cose, le solite vecchie cose. Basta, ho buttato i soldi.
E invece stava accadendo qualcosa. Qualcosa che, devo dire la verità, raramente accade quando si legge un libro: lo stavo vivendo. Ci stavo mettendo il cuore.
Questo libro è apparentemente "semplice", forse, per la banalità con cui la maggior parte delle persone purtroppo si accosta ai romanzi e ne giudica la qualità.
Io lo trovo grandioso.
La maniera in cui è scritto, senza che tu te ne accorga, ti cattura, ti parla, ti racconta...ti manca, una volta che l'hai terminato.
Ti spiega, con parole semplici e reali, come e quanto facilmente il brutto può violentare il bello. Quanto la malizia può sgretolare e contaminare la purezza. Come l'innocenza barcolli sotto il tiro della cattiveria e dell'ingiustizia. Quanta forza di volontà serve per vivere una vita che per molti è tutta lì, così piccola e insignificante da poter esser descritta in non più di qualche povera parola.
Quanta parte nascosta c'è dietro all'apparenza di qualcuno e quanta incredibile pochezza invece ristagna dentro appariscenti figure.
Quanta rabbia può contenere una persona, prima di esplodere? Quanto si può sopportare?
Un angolo di Italia scorre via in queste pagine e ti rimane nel cuore a lungo perché, in fondo, da lì ci siamo passati più o meno tutti. Chi in un modo, chi nell'altro, in quell'angolo troviamo una parte di noi.
Ho visto un'Italia raccontata in modo sincero. Un'Italia fatta di sogni infranti e di piccole, grandi realtà.
Un romanzo bellissimo.

"Pensa che bello essere invisibile. Come la femmina dei fantastici quattro. Ti passano davanti e non ti vedono. Tu te ne stai là e loro non ti vedono. Il massimo. Oppure, ancora meglio, non esistere nemmeno. Non esserci proprio. Non essere nemmeno nato."  (Da: Ti prendo e ti porto via, Niccolò Ammaniti)

venerdì 4 maggio 2012

Come il velluto rosso...


Tutto questo ha un po’ a che fare con un fiocco rosso. Uno di quelli vellutati ed elastici che si usavano quando ero piccola, e che io avevo, ma era finito, durante uno dei movimentati giochi tra me e mio fratello, dietro un mobile della sala.
“Noooo….” La mia profonda delusione quando l’ho visto sparire dietro il mastodontico mobile (è uno di quelli vecchi vecchi, di legno pesante e spesso, difficilissimo da spostare).
Credo di averci anche pianto, per quel fiocco andato perduto.
L’ho dato per perso, sì, come se qualcosa di invincibile l’avesse inghiottito. Forse perché, qualcosa di invincibile, in quegli anni, lo stavamo combattendo davvero: mio padre aveva il cancro. Lo avevamo scoperto da non molto, quando il fiocco sparì dietro il mobile. Questo lo so, come so tante altre cose di quei giorni lontani.
In un altro anno, in un altro tempo, mio padre avrebbe spostato il mobile, con un po’ di fatica, ma ce l’avrebbe fatta e avrebbe recuperato il mio amato fiocco rosso. 
Questo sarebbe potuto accadere in un tempo, allora non troppo lontano, in cui lui non era spezzato dalla malattia, né dalle cure debilitanti e distruttive. Ma il giorno che il fiocco rosso venne inghiottito dal mio mobile per andarsene a riposare in un angolo buio, non solo mio padre era debole e malmesso…lo eravamo tutti, forse senza nemmeno saperlo, o quanto meno senza sapere quanto malmessi.
Era perduto, punto. Perduto il fiocco. Perdute un sacco di altre cose belle e semplici.
A nessuno venne in mente di spostare il mobile. C’erano troppe cose di cui occuparsi, e molte altre da ignorare, il fiocco dietro al mobile era, giustamente e ovviamente, una di quelle.
Io, lo avevo dimenticato.
Poi un giorno torno a casa, non molto tempo fa e… BAM! un fulmine mi colpisce proprio in mezzo al cuore.
Il fiocco rosso è lì, sul tavolo, la polvere non è riuscita a smorzare il suo velluto splendente. Il suo colore vermiglio occhieggia da sotto il grigio che cerca di cancellarlo.
Io rimango immobile. E forse mia madre non se ne accorge, lei, che mi sta indicando il fiocco dicendo “Hai visto? Oggi tuo fratello è venuto qui, ha spostato il mobile per cambiare il cavo della televisione e lo abbiamo trovato.” 
Quanti anni avevo, l’ultima volta che lo avevo toccato? Tredici? Quattordici? Qualche età sospesa tra quelle, comunque.
Prendo in mano il fiocco, e succede. 
Succede che qualcosa, inspiegabilmente, si libera. Qualcosa che era rimasto imprigionato insieme a lui, per tutti questi anni, che sono più di metà della mia vita, e che sono scivolati via senza nemmeno riuscire a guardarli bene in faccia. E’ qualcosa che è fatto di aria e respiro, di odori e profumi nascosti dal tempo, di sensazioni e tocchi, di capelli, i miei, di una ragazzina a cui stava morendo il padre sotto agli occhi. A cui stava morendo anche parte della sua vita, ma questo ancora non lo sapeva del tutto, non lo sapeva davvero, grazie a Dio.
Qualcosa che è fatto anche, purtroppo, di tutto il dolore e la paura di quel tempo. Di quell’anno, di quell’esattissimo giorno e momento in cui Puff era caduto al di là del mobile.
Non lo dico, a mia madre, quello che sto provando. E’ qualcosa di così tremendamente mio che ho paura che se tentassi di spiegarlo uscirebbe solo qualche stupida frase sconnessa.
Quindi mi limito a rimetterlo sul tavolo, un po’ guardinga, e a dire: “Cavolo…pensa, non me lo ricordavo neanche più.”
Fortuna che i nostri continenti interni, quando si smuovono e creano terremoti, fanno rumori che al di fuori non si sentono, altrimenti mia madre avrebbe creduto che stessi per morire.
I giorni successivi, quel fiocco è stato lavato, ed è riapparso nel suo splendore, come solo il velluto rosso sa fare.
L’ho guardato per un po’, da lontano. Ci giravo attorno. Poi è finito in un cassetto, quello del bagno, dove ci sono le spazzole, i pettini, e gli altri elastici meno appariscenti e più adulti.
Ma continuavo a inciamparci. Tiravo su la spazzola e veniva su anche lui, impigliandosi. Aprivo il cassetto e balzava fuori come una molla.
Era lì, inutile negarlo.
E allora mi ci sono fatta la coda un giorno, e mi sono guardata allo specchio.
Mi sono guardata allo specchio.
E lei, era ancora lì. La me di allora, era ancora lì. E io che credevo bastasse nasconderla dietro a un mobile, per non trovarla più…per riuscire a cancellarla.
Nemmeno gli anni, nemmeno i dolori, nemmeno tutto quello che è passato o che non lo è, l’hanno cancellata.
Lei, è ancora lì. E quel fiocco rosso appartiene a lei.
Quel fiocco rosso che ha aspettato per anni al buio, lottando con la polvere, ascoltando da lontano tutto quello che succedeva, chi se ne andava e chi arrivava, in fondo ha fatto quello che ho fatto io. Ha fatto quello che fanno milioni di persone.
Lo so, alle persone non basta una lavata per tornare a splendere. Alle persone serve amore, tanto amore. Alle persone serve comprensione, serve tempo e cura, serve speranza, serve credere e servono mille altre cose…ma forse, scrollarsi via la polvere dall’anima si può.
Ecco perché, tutto questo, ha un po’ a che fare con quel fiocco.
Mi sono permessa, un’altra volta, di sperare che qualcosa, qualunque cosa, possa cambiare. Che una nuova strada possa portare a qualcosa di nuovo e più bello (che si tratti di guardare dietro a una porta, o dietro a un mobile per scoprirla, poco importa), che le favole, in fondo, a volte si mischiano con la realtà, che crederlo non è nemmeno troppo da bambini o da folli…e se è da folli, è da folli buoni.
Tutto merito di quel fiocco rosso. E di quella ragazzina che ero, anche un po’ suo, perché se lei non avesse tenuto duro, io oggi non sarei qui, io oggi non sarei così.
Così come?
Resistente…e impossibile da cancellare.
Come il velluto rosso. 

martedì 1 maggio 2012

Il tuffo e il grido


Un tuffo. Ecco cosa sembra, il suo.
Un tuffo nel nulla o nel tutto, a seconda di come si veda la vita, a seconda dell’importanza che diamo a quello che ci sta sotto…e sopra.
Ma il suo, il suo è un tuffo nel tutto.
E un grido.
Un grido che suona come un annuncio. Un grido che sembra dire che il cielo è suo e guai a chi glielo tocca.
E’ lei, la riconosco dalla striscia bianca sul dorso. E’ tornata anche quest’anno nello stesso nido, dopo aver sorvolato terre e mari, seguendo una strada invisibile a chi non fa parte di quel tutto in cui lei vola, e che a noi è dato solo di respirare. Che viaggio duro deve essere stato, mentre dentro di lei già portava le nuove piccole vite protette nelle loro uova. Quanti tetti avrà guardato, da lassù, desiderando solo il suo, il più bello, quello che protegge da più di vent’anni ormai la sua piccola splendida casina che se ne sta arroccata in un minuscolo angolo sotto la tettoia del palazzo in cui abito.
Quanti chilometri di volo, prima di approdarvi, stanca.
Ne sono arrivate di tempeste, da queste parti, ne è soffiato di vento. È caduta grandine e neve, ma quel nido arroccato in quell’angolo non ha mai ceduto.
Sembra dirmi qualcosa, sembra dirlo a tutti, a dire il vero, se solo fossimo disposti ad ascoltare un po’ di più, noi, esseri intelligenti chiusi in gabbie di cemento mai abbastanza belle da soddisfare il nostro appetito d’apparenza.
Eppure lei se ne sbatte. Lei, è tornata a riaprire le porte della sua casetta vecchia di vent’anni e più, e l’ha trovata accogliente, bellissima, sua, perché lì dentro lei c’è nata.
E prima di lei i suoi genitori, e via così…per generazioni. E ora ci deporrà le uova da cui beccheranno fuori i suoi piccoli.
È così che va la vita, in fondo, no? Ci si deve solo trovare un tetto, un tetto sotto cui stare e da cui spiccare il tuffo.
Il tuffo e il grido. Quello che dice agli altri che ci siamo, e che facciamo parte di questo benedetto tutto.
Bè, grazie, piccola rondine dalla striscia bianca. Oggi vedendoti mi è sembrato di farlo, quel tuffo, di farlo davvero.
Perché ti ho vista, sai?
Lanciarti a picco per poi riprendere quota e garrire, il becco rivolto al sole, le ali ad accarezzare il vento.
L’ho sentito, sai?
Quel brivido che ti ha attraversata mentre in un modo strano dicevi che era tuo, tutto tuo quel cielo splendido di primavera. Tue le correnti tiepide a scorrerti tra le piume, tuo il sole, tua quell’aria che a me, povera, piccola me, è dato solo di respirare.
Chiudo la finestra e mi sorprendo a sorridere, tranquilla. Ti vedo ancora lassù, lontana, mentre voli di qua e di là salutando il quartiere…e penso che ancora una volta, qualcosa di importante è tornato al suo posto.
Per un attimo il mondo mi sembra un posto splendido, un posto in cui si può sempre riuscire a tornare a casa, per quanto lontani ci si sia spinti, un posto in cui ci si può tuffare a picco e poi riprendere quota, un posto in cui si vola in alto….si vola liberi…un posto in cui i piccoli nidi resistono a ogni tempesta