A mio figlio non nato: non sono stato sempre in silenzio, prima parlavo, parlavo, parlavo, parlavo e non riuscivo a tenere la bocca chiusa, il silenzio si è impadronito di me come un cancro, successe una delle prime volte che mangiavo in America, quando tentai di dire al cameriere: "Il modo in cui mi ha dato quel coltello mi ricorda..." ma non riuscii a finire la frase, il nome di lei non usciva, ci riprovai e non usciva ancora, lei era chiusa dentro di me, che strano, pensai, che frustrazione, che cosa patetica, che tristezza, tirai fuori di tasca una penna e scrissi sul tovagliolo "Anna", poi risuccesse due giorni dopo, e il giorno dopo ancora, lei era l'unica cosa di cui volessi parlare, continuava a succedere, quando non avevo una penna scrivevo "Anna" nell'aria - a rovescio e da destra a sinistra - di modo che la persona con cui stavo parlando la vedesse, e quando ero al telefono componevo i numeri - 2,6,6,2 - affinché la persona sentisse quello che non potevo, da me, dire.
"Anche" fu fu la seconda parola che persi, probabilmente perché era così simile al suo nome, che parola semplice da dire, e che profonda parola da perdere, dovevo dire "eziandio", che suonava ridicolo, ma era proprio così, "vorrei un caffè ed eziandio un dolce", a nessuno sarebbe piaciuto sentirsi in questo modo. "Volere" è il verbo che persi poco dopo, non perché avevo smesso di volere le cose - le volevo più di prima - solo che non riuscivo più ad esprimere il volere, quindi al suo posto dicevo "desidero": "Desidero due panini" dicevo al panettiere, ma non era esattamente così, il senso dei miei pensieri cominciava a fluttuare via da me, come foglie che cadono da un albero nel fiume. "Venire"lo persi un pomeriggio al parco con i cani, persi "bene" mentre il barbiere mi girava verso lo specchio, persi "peccato", il nome e l'esclamazione nello stesso momento, e fu un peccato. Persi "portare" e persi pure le cose che portavo - "diario", "matita", "moneta", "portafoglio" - e persi anche "perdere". Dopo un po' mi restava soltanto un pugno di parole, se qualcuno faceva qualcosa per me gli dicevo: "La parola che viene prima di 'non c'è di che'", e se avevo fame indicavo la mia pancia, e dicevo "Sono il contrario di pieno", avevo perso "sì", ma mi restava "no", perciò quando qualcuno mi chiedeva: "Sei Thomas?" io rispondevo: "Non no", ma poi persi "no" e allora andai da un tatuatore e mi feci scrivere Sì sul palmo della mano sinistra e NO sul palmo della destra, che dire, non è che questo renda la vita meravigliosa, ma la rende possibile, quando mi stropiccio una mano contro l'altra, in pieno inverno, mi riscaldo con l'attrito del sì e del no, quando batto le mani mostro il mio gradimento unendo e dividendo sì e no, dico libro o quaderno aprendo le mani dopo averle battute, per me ogni quaderno è l'equilibrio del sì e del no, anche questo, il mio ultimo quaderno, soprattutto questo.
E il cuore mi va in pezzi, certo, in ogni momento di ogni giorno, in più pezzi di quanti compongano il mio cuore, non mi ero mai considerato di poche parole, tanto meno taciturno, anzi non avevo proprio mai pensato a tante cose, ed è cambiato tutto, la distanza che si è incuneata tra me e la mia felicità non era il mondo, non erano le bombe e le case in fiamme , ero io, il mio pensiero, il cancro di non lasciare mai la presa, l'ignoranza è forse una benedizione, non lo so, ma a pensare si soffre tanto, e ditemi, a cosa mi è servito pensare, in che grandioso luogo mi ha condotto il pensiero? Io penso, penso, penso, pensando sono uscito dalla felicità un milione di volte, e mai una volta che vi sia entrato. "Io" fu l'ultima parola che fui capace di dire ad alta voce, è tremendo, ma successe così, me ne andavo per il vicinato dicendo "Io, io, io, io". "Thomas, bevi un caffè?" "Io." "Con qualcosa di dolce,forse?" "Io." [...]. Volevo tirare il filo, disfare la sciarpa del mio silenzio e ricominciare daccapo e invece dicevo "Io". So di non essere l'unico malato di questa malattia, sentite i vecchi in strada, alcuni gemono: "I-o, i-o, i-o", ma si aggrappano, alcuni, alla loro ultima parola, dicono "io" perché sono disperati, non è un lamento ma una preghiera, e poi persi anche "io" e il mio silenzio fu completo. Cominciai a portare con me quaderni bianchi come questo, che riempio di tutte le cose che non posso dire [...] e invece di cantare sotto la doccia scrivevo le parole delle mie canzoni preferite, l'inchiostro tingeva l'acqua di blu, di verde o di rosso, e la musica mi scorreva lungo le gambe, alla fine di ogni giornata portavo il quaderno a letto e leggevo le pagine della mia vita.
(Jonathan Safran Foer - Molto forte, incredibilmente vicino)
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