venerdì 25 maggio 2018

Dovevo trovare il modo di dirti addio, papà...

Un ricordo. Uno di quelli forti, uno di quelli sepolti e che, ogni tanto, rimescolati nel calderone degli eventi, tornano a galla e ribollono un po'. Se li assaggi, e non ti ricordi di soffiarci bene bene sopra, ti scotti.
Stasera sono stata incauta e ho assaggiato un po' di quel ricordo frettolosamente, senza prepararmi. Mi sono bruciata e adesso mi brucerà per un bel po' ancora.
Una stanza d'ospedale, la luce fioca della lampada sopra il tuo letto e il tuo viso, papà, appoggiato sul cuscino e girato verso di me, seduta accanto al tuo letto.
Era il giorno prima o forse due prima che morissi, avevo in mano un bicchiere d'acqua e te lo porgevo, ogni tanto, con una cannuccia infilata dentro da cui tu bevevi qualche piccolo sorso.
Mi guardavi. Tanto. Mi guardavi e basta e io guardavo te.
A un certo punto hai allontanato con la mano la cannuccia e mi hai fatto segno di appoggiare la mia testa sul cuscino. Io l'ho fatto. E siamo rimasti così per tanti lunghissimi minuti. Volevo che il tempo passasse lentamente e, alcmeno in questo (e a ben vedere in molto altro) Dio mi ha accontentata.
Avevo paura. Una paura muta, sorda e pulsante. Una paura metallica. E tu lo sapevi. Ora l'ho capito. Mi hai guardato e allora io quel tuo sguardo non potevo capirlo fino in fondo, l'ho soltanto bevuto fino all'ultima goccia perché sapevo che mi saresti stato concesso ancora per poco. L'ho intuito, sì, ma adesso, solo adesso l'ho compreso del tutto. Avevi paura anche tu, e non solo per te, ma anche per me, per noi, per la tua famiglia che eri costretto a lasciare così presto.
Hai lottato come un leone, papà. Hai rubato il tempo alla morte, pur di regalarci ancora qualche mese. Hai vinto mille battaglie e lo hai fatto per noi. Ma sei morto spaventato, papà. Avevi paura non della tua morte, ma della nostra vita senza te. In quei minuti me l'hai detto, silenziosamente. Me l'hai detto guardandomi con un paio d'occhi che non tremavano nemmeno lì, in quel letto d'ospedale. E io, appoggiata su quel cuscino, con il cuore a metà, ho detto a te che io non sapevo cosa ne sarebbe stato della mia vita, senza di te. Te l'ho detto, anche se non volevo. L'ho fatto perché ero piccola e non sapevo cosa bisogna fare quando qualcuno se ne va per sempre.
Dovevo trovare il modo di dirti addio e l'ho fatto.
Scusami, papà.
Scusami se una delle ultime cose che hai sentito è stato il mio grido d'aiuto. Scusami se non sono riuscita a nascondertelo ma se lo avessi fatto, probabilmente sarei esplosa in miliardi di pezzi.
Brucia. Brucia, quel ricordo. Quel cuscino su cui ti ho detto addio, quel dialogo di sguardi galleggia, adesso, dentro di me e mi fa un male del diavolo.
Ti amo, papà. E te l'ho detto troppo poco mentre eri qui perché a quell'età l'amore è strano e non ha nome né parole.
Tra poco me ne andrò da quella stanza d'ospedale e staccherò il mio viso da quel cuscino perché fa troppo male... ma sono una donna adesso e, prima di andare via, voglio farti una carezza e dirti quello che se fossi stata adulta allora ti avrei detto...
Vai, papà. Non avere paura per me.
Non avere paura per noi.
Vai, papà... non preoccuparti, sono forte abbastanza.
Vai...papà.
Dormi bene, dormi sereno... qui, andrà tutto bene.
E anche se non era vero, a te sarebbe servito.
Anche se non era vero, non saresti morto spaventato.
Anche se non era vero, forse, sarebbe bastato.

domenica 13 maggio 2018

Sei stata brava. Brava e forte

Mentre sto per alzarmi dal divano per appoggiare sul tavolo la tazzina di caffè mi arriva negli occhi il ricordo di un vecchio posacenere... L'avevo rubato in un bar insieme agli amici di allora, era azzurro e bianco, disegnato sopra campeggiava lo stemma colorato e sorridente di una nota marca di gelati. Mi chiedo vagamente che fine possa aver fatto, lui come tante altre cose, deve essersi rotto durante lo scorrere di qualche giorno passato.
Sorrido... ripenso alla serata in cui l'avevo rubato, al senso di colpa misto a eccitazione che avevo provato. Me la ricordo, bene, quella sera d'estate rovinata dal solito temporale.
Ripenso a quando lo riempivo di sigarette spente, negli anni in cui fumavo... e fumavo troppo. Ripenso, senza deciderlo, a quegli anni lì... quelli più duri, quelli che se me li avessero descritti prima di viverli io sarei fuggita via senza remore, spaventata a morte, convinta che non avrei mai e poi mai potuto affrontarli. L'immagine della mia mano che si abbassa avvolta nell'ultimo sbuffo di fumo soffiato fuori dalla mia bocca e spegne, sempre con troppa foga, la sigaretta nel posacenere azzurro e divertente... e poi quella stessa mano che sale e cerca la croce appesa al collo... e l'immagine di me che guardo la strada dal balcone, cercando come sempre una soluzione. Mi risiedo sul divano, oggi, a 37 anni, e porto con me la ragazza che ero, obbligandola a sedersi vicina a me e parlarmi perché non lo facciamo da un bel po'.
E se non ci parliamo è merito di un amore... un bell'amore arrivato quando ormai non ci credevo più e che, senza paura, mi ha preso la mano e ha cominciato ad accompagnarmi verso il futuro senza permettermi di guardare dietro, là, dove lei è rimasta a fissarmi. La guardo, adesso, quella ragazza con i capelli lunghi e color rame. Lei, guarda me. Le guardo le mani, sono più forti delle mie, il tempo passa... anche se non ci sembra vero. Più forti sono le braccia e le sue gambe infilate nei jeans strappati. Marina, fidati di me ragazza, hai fatto un bel lavoro, nonostante tutto. Hai fatto in fondo soltanto quello che hai potuto, con quel niente che ti hanno dato in mano e con quegli strappi che arrivavano di notte o di giorno, per farti gridare e stare male... Marina, hai fatto un bel lavoro. E lei annuisce, i suoi occhi sono più grandi, disegnate intorno hanno meno rughe ma i segni di quelle future si vedono già... Parlano chiaro di quello che ha vissuto e vivrà. Annuisce e prende una sigaretta, le unghie lunghissime e smaltate (una di loro ha un orecchino a cerchiolino infilato in un buchino fatto con la punta di un compasso) la sfilano dal pacchetto di chesterfiled light, la portano alla bocca e l'accendono. Respira il fumo, Marina, si scosta i capelli e li sbatte da un lato, poi mi sorride in un modo che conosco perché, ogni tanto, mi capita di farlo ancora. Allunga una mano verso il mio viso e ce l'appoggia addosso. Non è una carezza, e quasi una sberla lenta... lei, allora, non era capace di accarezzare né di lasciare che lo facessero con lei. Io, invece l'accarezzo e lei per un attimo si ritrae... Mi guarda stupita e le dico con lo sguardo che sì, ho imparato a farlo. Hai imparato, Marina, nonostante la vita. Hai imparato, anche se allora non lo sapevi. E in quel tocco tutto, tanto, risale su... milioni di immagini e di rumori. Migliaia di grida e sospiri; frammenti di conversazioni strozzate dal pianto, stralci di preghiere disperate; batticuore di paura, batticuore di adrenalina, batticuore di silenzi. Mani...mani al petto, mani a stringere le mie per farmi coraggio, mani a indicarmi, mani a condannarmi, mani chiuse a pugno contro le facce di chi per strada era mio nemico, mani strette a pugno di notte, impossibili da rilassare. Passi... passi di corsa, passi che si allontanano, passi che ritornano, passi di me che provo ad andare via.... valigie riempite a notte fonda, nella confusione più totale, porte sbattute, porte riaperte e richiuse. Rumore di chiavi, chiavi che chiudono una gabbia.
Marina mi guarda, piange. Lo fa come lo faceva allora, da arrabbiata. La bocca non le trema, lo sguardo è cattivo, gli occhi sono aperti e le lacrime scendono senza ostacoli ma la faccia non si arrende al pianto. Piange così soltanto chi viene mangiato dalla rabbia ogni secondo della sua vita e questo, Marina, allora non lo sapeva.
Mary, Bella, hai fatto un bel lavoro, davvero, nonostante tutto... E allora lei si addolcisce. Mary, Bella, hai vinto un milione di battaglie.
Mary, spegni quella sigaretta e guarda in faccia la donna che sarai. Non so quanto vivremo, ma adesso siamo qui, sedute sul divano io e te. Non avere rimpianti, non distruggerti l'anima, non rimproverarti troppe cose, assolviti... Assolviti.
Sparisce, quella Marina di tanto tempo fa, si dissolve sorridendo nonostante le lacrime... forse l'ho convinta...
Un attimo prima che sparisca le sue unghie aprono il pacchetto e lo avvicinano alla bocca. Pizzica con le labbra il filtro di una sigaretta e la sfila. Sorride, mentre l'accende mi fa l'occhiolino e io rido...
...e ride anche lei. Ride anche lei.
Forse fa in tempo a sentirmi mentre la ringrazio per avermi salvato la vita; per non essersi arresa mai, nemmeno quando diceva che lo avrebbe fatto.
Grazie, ragazza.
Sei stata brava e forte.
Grazie...
Grazie.

13/05/2017