venerdì 8 settembre 2023

Sì, ho scritto un libro che parla di suicidio. E l'ho fatto per LORO.

Un soffio leggero - Marina Lizzi
 Sì.

Ho scritto un libro che parla di #suicidio

L'ho fatto perché credo che sia un mostro di cui tutti hanno paura ma nessuno ne parla.

L'ho fatto perché so che ha sfiorato la mente di molte più persone di quante non siano disposte ad ammetterlo.

L'ho fatto perché credo nella vita e credo anche nel dolore che alcune volte soffoca la voglia di viverla.

L'ho fatto perché prego e spero che sempre più persone si accorgano di questo mostro e abbiano la forza di parlarne e di scappare lontanissime dalle sue mani gelide.

L'ho fatto.

L'ho scritto.

È qui di fronte a voi, perché non esiste solo l'azzurro delle emozioni gioiose, e davanti a una percentuale così alta di giovani che si tolgono la vita, forse sarebbe il caso di provare a capire quel buio invece che fare finta che non esista.

Questo libro è per LORO.

Per tutti quelli che sono saliti sulla ringhiera di un balcone, sul cavalcavia di un'autostrada, sul davanzale di una finestra e, guardando giù, hanno sentito qualcosa che li chiamava, un mostro buio alle spalle che li spingeva.

Per chi è saltato giù, e anche per chi non lo ha fatto.

Per tutti quelli che hanno guardato il treno arrivare e fatto un passo oltre la linea gialla con il freddo nella pancia e nella mente e la voglia di credere che, dopo quel passo, tutto sarebbe finito... soprattutto il dolore.

Per chi quel passo l'ha compiuto in avanti e anche per chi, invece, per fortuna lo ha fatto indietro.

Per tutti quelli che hanno acquistato una corda da legare a un albero o ad una trave del soffitto.

Per chi ha mollato la presa con il mondo e anche per chi invece ha slegato la corda tremando di paura.

Per tutti quelli che hanno creduto che l'oblio dopo aver ingoiato decine di pillole sarebbe servito a smettere di soffrire.

Per chi le ha inghiottite e si è addormentato per sempre e anche per chi le ha buttate tutte nel cesso.

Per tutti quelli che hanno scritto biglietti piangendo alle loro famiglie e anche per chi non lo ha fatto, lasciando domande eterne e senza risposte.

Per LORO... e per chi gli è vissuto accanto e non ha visto e non ne ha nessuna colpa.

Per LORO... e anche per chi gli è vissuto accanto e ha visto ma non è riuscito a salvarli perché non sempre si può.

Per LORO... e anche per chi invece fa finta che LORO non esistano, che non siano migliaia ogni giorno, in ogni parte del mondo e di tutte le cazzo di età.

Per LORO e per TUTTI.

Perché non voglio più sentire di mostri bui che spingono giù dai balconi o sotto un treno, che ti aprono la bocca per infilarti dentro pillole bianche e amare; che ti legano il cappio intorno al collo sussurrandoti che dopo andrà meglio.

Per LORO e per TUTTI quelli che quel mostro lo hanno visto o sentito aggrapparsi addosso con i suoi artigli disperati.

Perché sempre più persone facciano un passo indietro all'arrivo del treno, perché scendano dalle ringhiere, si liberino delle corde e inizino finalmente a correre verso tutta la vita che li aspetta, con tutto il fiato che hanno in corpo, con tutta l'anima che gli vive dentro, con tutto il sangue che scorre, il cuore che batte, i polmoni che strappano il fiato ad ogni respiro e... VIVANO.

Potentemente, profondamente, VIVANO.

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SIAMO COLPEVOLI TUTTI

 SIAMO COLPEVOLI TUTTI

La strage di Brandizzo deve parlare alle orecchie di molti


Ogni giorno emergono particolari devastanti sulla tragedia di

Brandizzo e no, non voglio usare il termine "agghiacciante" perché si

usa sempre, si usa troppo, si usa quasi come intercalare nei fatti di

cronaca più dolorosi e tutto quel ghiaccio, forse, riesce a togliere un

po' di quel dolore terribile e dilananiante che invece non si può non

provare di fronte ad accadimenti di questo genere.


Quei tre avvertimenti non ascoltati


A fare più male, oggi, è quello scambio di telefonate pochi minuti

prima dello schianto. Quelle che racchiudono, a quanto pare, tre

alert inascoltati che dicevano chiaramente che lì, su quei binari, quei

ragazzi non potevano ancora andarci.

Antonio Massa, l’uomo scorta - ditta, addetto di Rfi, continua a

ripetere da giorni “Ho mandato a morire quei ragazzi...”, lo ripete sin

dai primi istanti, lo ripete in ospedale, lo ripete agli altri e a se stesso.

La procura di Ivrea lo definisce un uomo distrutto e, tutti noi, non

fatichiamo a crederlo.


Le telefonate intercorse tra lui e la tecnica di turno di Chivasso sono

state tre, sembra e, durante la terza, la comunicazione registra

l’arrivo del treno, il suo sferragliare, l’impatto terribile... le grida.

Le grida.

E lì, in quel momento, muoiono tutti e contemporaneamente tutti

falliamo. Muoiono i ragazzi, sì, ma non solo loro. Muore tutto quello

che il lavoro dovrebbe essere.


Di che cosa è figlia la tragedia di Brandizzo?


Perché, di che cosa è davvero figlia, la tragedia di Brandizzo?

No, non è figlia dell'uomo che ha dato il via libera ai lavori pur senza

averne il permesso;

Non è figlia dei macchinisti, che ora vivranno con quel rumore di

corpi e grida a perseguitarli giorno e notte;

Non è figlia di quei poveri lavoratori dilaniati dal treno;

Non è figlia tantomeno di chi, giustamente, non dava il via libera

perché non ce n'erano le condizioni.


Questa tragedia è figlia di questo mondo del lavoro marcio, avariato.

È figlia della paura delle penali, della corsa a un oro ormai povero e

impoverito, fatto di appalti miseri e insufficienti.

Questa tragedia è figlia di chi crede che lavorare veloci sia meglio

che lavorare bene; che finire prima sia meglio che finire giusto. È


figlia di chi obbliga gli uomini a somigliare alle macchine sotto la

minaccia di sostituirli con loro.


Tutti siamo colpevoli


Tutti sono colpevoli.

Quelle cinque vite, anzi no, quelle DECINE di vite: quelle dei cinque

operai, delle loro famiglie e amici, quelle dei macchinisti e delle loro

famiglie e amici, quelle dei superstiti e delle loro famiglie e amici...

Ecco, tutte queste vite uccise o rovinate sono sulla coscienza di chi

partecipa a questa scellerata discesa della qualità di fronte alla

velocità. Dell'automazione di fronte all'umanità, dello sfruttamento di

fronte alla dignità che dovrebbe regnare come unica r potente regina

in ogni luogo di lavoro e non solo.


Tutti SIETE colpevoli.

Tutti voi che credete che la vita dei lavoratori sia in vostro possesso.

Tutti voi che pensate che lavorare sia scendere a patti, anziché un

diritto.

Tutti, siamo colpevoli.


"Sono morti tutti... Sono morti tutti."

Dice l'ultima telefonata intercettata.


Sono certa che se la ascoltassimo con attenzione, si sentirebbero

anche i sospiri dolenti e rabbiosi di quelle anime appena strappate

dai corpi, come stracci, come carne da macello...

"Siete colpevoli, TUTTI."

Direbbero, mentre il mondo fatto di fatica e sempre più

incomprensibili ingiustizie diventava per loro un puntino lontano.

"Siete colpevoli tutti..."

domenica 6 novembre 2022

Un soffio leggero...

 

Un soffio leggero, Marina Lizzi
"Non lo sapevo. 

Giuro che non lo sapevo.

Non lo sapevo che morire potesse essere così semplice e indolore. E non solo per il corpo ma anche e soprattutto per l’Anima.

E credevo che almeno avrei provato sollievo, che la disperazione della vita si dissolvesse come per magia e fossi invasa da quella pace meravigliosa di cui tanto si parla, quella che sogni ad occhi aperti quando hai paura, quando hai talmente tanta paura da sentire freddo.

Invece no.

Non ho sentito sollievo, non ho provato dolore. 

Ma ho udito un soffio, un soffio leggero.

E in un attimo ero... di là.

Ho udito solo quello, solo un soffio leggero, la sera in cui mi sono suicidata.  [...] 

No, non l’ho deciso a tavolino, non l’ho programmato, nessuna data fissata.

No. 

Non credevo, davvero, non credevo che l’avrei fatto sul serio.

Oh certo, ci avevo pensato al suicidio. Ci avevo pensato anche spesso.  

Sembrerà ridicolo, ma ho iniziato a provare nostalgia della vita molti anni prima di morire.

Ci avevo pensato, sì, ma solo pensato, per l’appunto. Un pensiero che come tutti i pensieri è astratto, nascosto lì, in un angolino della mente che, ogni tanto, nel buio, luccicava.

Luccicava per ricordarmi che esisteva. 

Che, in fondo, anche quella era una possibilità. "  

Un soffio leggero è in vendita qui...


.Mi preme dirvi e chiedervi alcune cose...

 

 

Avete presente quelle cose che rimangono lì a guardarvi storto finché non le mettete a posto? Che so, i calzini appena ritirati dallo stendibiancheria e posati su una sedia del salotto, il piatto da lavare della sera prima, un cassetto lasciato mezzo aperto che lo guardi e dà fastidio e ti sembra che, se non metterai via i calzini, non laverai il piatto o non chiuderai il cassetto, allora non riuscirai a fare molto altro di concludente, durante la giornata.

Ecco, questo libro è un calzino.

Un piatto da lavare, un cassetto… un cassetto rimasto aperto per troppo tempo e nel quale inciampavo continuamente facendomi un male cane.

È giovane e vecchio insieme (come il mio primo romanzo, “Le Anime di Heaven’s Hall”, che sia un vizio il mio?): giovane perché quando l’ho scritto lo ero anch’io; vecchio perché da quando l’ho fatto, sono passati molti anni.

E sono stati anni ricchi di rimaneggiamenti, di dubbi atroci, di domande dolorose e risposte incerte. Era nato con un parto doloroso e travagliato ma necessario e vitale, come ogni parto che si rispetti.

Era uscito da me, dal mio corpo e dalla mia anima, con una tale violenza da lasciarmi quasi sbigottita, ma dovevo fare i conti con il tema che trattavo: il suicidio.

Che brutta parola, eh? Come suona male, vero? Eppure esiste. Esiste e grida con una voce che non può non essere ascoltata e, io, avevo bisogno di darle spazio, di darle pagine e parole, di darle una storia, un nome, un corpo.

I libri, quasi sempre, servono a questo: iniziare un dialogo, lanciare una freccia, dare voce. Il resto spetta sempre al lettore.

Senza annoiarvi oltre mi preme dirvi e chiedervi delle cose.

Dirvi che no,   questo romanzo non contiene nessun giudizio, nessuna lezione, nessuna pretesa, soltanto una voce.

Chiedervi di essere clementi verso Marybeth, che è soltanto un nome che però ne contiene tanti, tantissimi altri.

Dirvi che è stato difficile, tremendamente difficile scrivere queste pagine.

Chiedervi di capirlo.

Dirvi che è importante, se avrete scelto di acquistarlo, leggere questo libro fino alla fine.

Chiedervi di avere pazienza.

Dirvi che la persona che lo ha scritto aveva sì e no vent’anni o poco più, ma affrontava da sempre la profondità buia e densa del dolore.

Chiedervi di non farvi ingannare dalle apparenze, nessuna apparenza.

Dirvi che, anche solo perché avrete acquistato questo libro, io vi vorrò bene e ve ne vuole anche Marybeth, o qualunque altro nome possa portare.

Chiedervi di leggere senza pregiudizio, dirvi che ve ne sarò grata per sempre.

Ho chiuso un cassetto, messo via i calzini e lavato quel maledetto, fottuto piatto che ristagnava nel lavandino da troppo tempo.

Le cose scomode sono sempre le più difficili da fare.

Ma anche le più utili.

 

 

Detto questo, prima di lasciarvi alla lettura, ho bisogno di dire dei “grazie” importanti.

Ad Alessandra, che ha letto ogni capitolo di questo romanzo durante la mia ultima revisione, nonostante il suo personale dolore: quello che hai fatto è prezioso, preziosissimo, ricordatelo sempre.

A Luca, il mio compagno, che quando ha letto questo testo mi ha abbracciato di uno di quegli abbracci che contengono tante cose impossibili da dire a parole.

A Katia, che in questi mesi (e non solo) non ha fatto che dirmi di credere in me, nel mio istinto, nello sguardo che vedevo allo specchio.

A Pamela, che è stata la prima a conoscere Marybeth e ad ascoltare il suo dolore: nulla si dimentica, MAI, quando ha avuto valore.

Ad Erika, la mia Sister: Rock’n’Roll, Sister, SEMPRE! - E in questa frase solo io e lei sappiamo quante cose prendono posto.

Ad Amelia, per tutti i suoi “Tu devi scrivere, la tua strada è quella: ricordalo!”

Perché questo libro, questo particolare libro, non avrebbe mai avuto nemmeno una chance se non fosse stato per loro.

 

 

Buona lettura, gente.

E se potete, non ascoltate mai, MAI, quella “puttana”.

Vi voglio bene.

Marina Lizzi


lunedì 11 gennaio 2021

La morte è fatta di nulla...

"...il tempo gioca brutti scherzi, quando una persona muore. Non si finisce mai di credere che prima o poi ritornerà, a sistemare il letto, a chiudere gli armadi che ha lasciato aperti dentro di noi, l’ultimo giorno in cui l’abbiamo vista, toccata, sentita. E li lasceremo aperti per sempre quegli armadi, ad aspettare. Le lenzuola rimarranno tiepide perché, al suo ritorno, la persona che amiamo dovrà riposare bene e trovare tutto come prima. 

La vita non si rassegna mai alla morte. Non le permetterà mai di vincere. Non ammetterà mai di essere stata sconfitta, nella consapevolezza che un giorno si riprenderà tutto quello che la morte le ha rubato. Semplicemente  perché la vita è eterna, si trasforma, cambia, ma non finisce mai. La morte deve solo accontentarsi di vincere queste piccole battaglie, e lo sa… Sa di non esistere, in realtà. 

La morte è fatta di nulla. 

E’ fatta di quell’attimo sfuggente in cui riesce a sfiorare i sentimenti e le emozioni delle persone che la attraversano, senza afferrarli, senza comprenderli, non riesce a riempirsene: è destinata a rimanere sola. 

Perché la vita sfugge, va via, prosegue. 

La morte le ha fatto solo cambiare strada."

𝙇𝙚 𝘼𝙣𝙞𝙢𝙚 𝙙𝙞 𝙃𝙚𝙖𝙫𝙚𝙣'𝙨 𝙃𝙖𝙡𝙡 - 𝙈𝙖𝙧𝙞𝙣𝙖 𝙇𝙞𝙯𝙯𝙞 

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mercoledì 4 marzo 2020

Le anime di Heaven's Hall


È il 27 giugno di un imprecisato anno ad Heaven’s Hall, un apparentemente calmo paese che si sdraia tra le colline di un’imprecisata contea, in cui si estendono i boschi del Rose’s Park e giacciono le placide acque dello Scarlet Lake, che Jude Chambers viene brutalmente uccisa. La sua auto viene ritrovata in mezzo alla lunga e solitaria strada che attraversa il Rose’s Park, dopo un violentissimo temporale. Ma il corpo di Jude non è lì. Il corpo di Jude è sparito, lasciandosi dietro la certezza della sua morte, testimoniata con assoluta fermezza dal ritrovamento del cuore della ragazza, strappatole dal petto e posato dal suo assassino sul sedile del passeggero, dove giace al momento del ritrovamento dell’auto. Le indagini svolte dalla polizia sono sconnesse, poco chiare, nonostante l’efferatezza del delitto non esiste nessuna pista concreta da seguire. Sul luogo dell’omicidio non affiorano impronte, nessuna traccia, Jude sembra essere stata uccisa dal nulla, e questo tormenta fino allo sfinimento fisico e psicologico il fidanzato e futuro marito di Jude, Jimmy Moore. Ma la storia ha realmente inizio (o inizia la sua fine, difficile, come in ogni storia, stabilirne la differenza) la sera del 27 giugno di dieci anni dopo, quando Jimmy incontra Diane Summers, ragazza tanto fragile quanto potente, dotata di una particolare sensibilità che le permette di avere contatti con gli spettri da quando, poco più che bambina, perse i genitori in un incidente stradale. È Diane a contattare Jimmy, dicendogli con disarmante semplicità che ha visto e parlato con Jude, e che per questo deve assolutamente vederlo. È in questa notte strana che Luke McConnel, noto psichiatra fatto quasi esclusivamente di logica razionalità (destinata evidentemente a crollare), rivede, dopo anni, il suo migliore amico: il defunto padre di Diane. E fuori, sempre in questa strana notte, c’è anche la piccola Lucy Lower, una bambina di undici anni che si trova in esplorazione in quella che lei chiama “Casa Morta”, ovvero la casa di Jude, la ragazza uccisa che lei ha imparato a conoscere attraverso gli articoli di giornale scovati nella biblioteca della scuola, appassionandosi, grazie alla sua fervida immaginazione, alla sua tragica storia. Le loro, ed altre, a formare un girotondo di anime destinate a scontrarsi e incontrarsi sulla scia del ricordo di Jude… le loro anime ed altre, sì, compresa quella del suo assassino.

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venerdì 12 aprile 2019

...e la mia anima è nata lì, in riva al mare.

Quasi nessuno lo sa, ma io mi chiamo Marina perché mio padre e mia madre si conobbero al mare, tanti anni fa… e si innamorarono là, sulle sue rive e, forse, da dove la mia anima si trovava allora io me ne accorsi, anche se sarei arrivata da loro solo molti anni dopo. La prima volta che vidi il mare non avevo nemmeno compiuto un anno. Mia madre mi racconta spesso di quella vacanza… dice che appena mi posò sulla sabbia, io corsi immediatamente a riva, col tipico passo di corsa traballante e incerto di chi ha appena imparato a camminare e, una volta lì, spalancai occhi e braccia e trattenni il fiato con un’espressione di meraviglia immensa sul viso tondo. Poi esplosi in un “QUAT’ACCA TUTTA PETTEVVA!!!” che nella mia mente voleva dire “quanta acqua tutta per terra!!” e chi mi era vicino scoppiò a ridere. Continuai a correre verso il mare per tutta la vacanza, era impossibile tenermi ferma e, di sera, per farmi addormentare serena mia madre era costretta a stare sveglia sulla terrazza dell’albergo da cui si potevano sentire le onde perché soltanto così, io che non dormivo mai, io che sin da piccola non sono mai stata capace di spegnere del tutto il rumore che avevo dentro, tacevo e finalmente riposavo. E siamo cresciuti insieme, io e il mare, anno dopo anno… in un legame che ha poco a che fare con il nuoto, con il prendere il sole e con lo stare in costume… Marina e il mare… era una questione di discorsi silenziosi, di pace interiore, era un incontro. Arrivavo e scappavo a riva ad abbracciarlo, me ne andavo e ogni ultima sera andavo a salutarlo… le mie mani tra le sue braccia liquide che arrivavano a riva, le mie lacrime, ogni volta che dovevo tornare a casa. Gocce salate nel sale delle onde… era semplicemente giusto così.
Poi, il mare mi è stato portato via per tanto, tantissimo tempo. Una tempesta terribile mi strappò mio padre, una tempesta di nome CANCRO, e la mia famiglia vacillò sotto i colpi tremendi del mentre e del dopo in modi che pochi possono dire di conoscere, davvero pochi, per la fortuna ottusa di molti.
Portarmi via il mare ha rischiato di uccidermi e, questo, io non riuscirò mai a farlo capire a nessuno se non a me stessa. Senza il suo potere io esplosi, dentro e fuori. Senza il suo mettermi in silenzio l’anima, io rischiai di perdermi. Sono dovuti passare molti anni prima che io riuscissi a rivederlo… anni duri, anni tempestosi. E quando lo rividi gli giurai che mai più, mai nessuno sarebbe riuscito a impormi di stargli lontana più di tanto. E lui capì. Lui capì e me lo disse, ma voi, tanto, a queste cose mica ci credete…
Ho appena rivisto il mare. Anche quest’anno cose più grandi di me, sommate all’egoismo di alcune persone, stavano cercando di portarmelo via ma, grazie all’AMORE, all’AMICIZIA e alla FATICA, sono riuscita a vederlo almeno per tre giorni.
Cosa volete che vi dica? E’ una magia e un destino, è una lingua che parlo soltanto con lui e… e allora ecco qui… La salita impervia verso una chiesa scavata nella roccia a strapiombo sul mare, la pioggia battente, il vento mischiato col sale… il buio della piccola, antichissima navata di pietra, un sospiro fresco e costante che entrava dalle porte e dalle fessure tra le rocce, le fiamme di candele ondeggianti ma accese contro ogni aspettativa… la corsa verso una porta spalancata, in un attimo sono fuori e… BAM! Il rombo del mare sotto di me, mare aperto e libero, che si infrangeva contro gli scogli di colline che sembravano appoggiate nell’acqua arrabbiata. E ha riso, lui, laggiù, io lo so. Ha riso di flutti e colpi, ha riso e rombato con le sue onde… e per me era un “Ciao” e un “Finalmente sei tornata, amica mia”- e io ho smesso di respirare… come mille anni prima, ho spalancato gli occhi e pianto… e quel pianto era un “sono tornata, sì, AMICO mio…” e quando ho ripreso fiato l’aria che è entrata era vita pura e potente, era aria frizzante mescolata alle grida dei gabbiani…. – E poi su un’altra riva, sotto le mura di un’altra città.. “Ci prendiamo un cartoccio di calamari fritti e una birra e pranziamo qui?” e sì, l’abbiamo fatto seduti su un balcone del porticciolo di Manarola, col sottofondo schiumante e le note del piano di un artista di strada abbarbicato con il suo strumento su un sentiero che saliva in cima al paese - E poi, due giorni dopo, quei vicoli stretti e colorati, come labirinti verso la riva… il rumore delle onde sempre più vicino, a ogni passo, a chiamarmi ridendo, a chiamarmi piangendo, a gridarmi di andare… ancora qualche passo ed ero di nuovo lì, all’esplosione del tramonto di un sole tiepido e dorato che si stava divertendo a dipingere l’acqua prima di cadere addormentato dietro alle colline. Ero di nuovo nel rumore di una magia che pochi riescono a comprendere, nonostante si tuffino tra le sue acque ogni anno o di più e spergiurino di amarlo… Ero di nuovo in una stretta di suoni e carezze capaci di acquietarmi. Ed ogni volta ho un anno, anzi di meno. Ogni volta sto correndo verso qualcosa che è irrimediabilmente mio, ogni volta il fiato mozzato, la meraviglia e il pianto. Ogni volta il silenzio, dentro, la pace dell’anima e dei pensieri febbrili che da sempre mi costringono a stare sveglia e all’erta. Ogni volta è un abbraccio tra me e quelle onde potenti, tra me e quel profumo di sale, tra me e il suo modo di pronunciare il mio nome che arriva da lui e che, chi lo sa, forse proprio lui ha suggerito all’amore dei miei genitori.
Come si fa, a spiegare questo?
Come si fa a spiegare il dolore del saluto finale e di che cosa è fatto?
Come si fa a spiegare quella forza, quella che esplode fuori da quelle onde infinite ed eterne?
Come ve lo spiego, io, che cos’è?

“Hai rivisto il mare, Bella?” mi dice mia madre al telefono
“Sì, finalmente…”
“E lui ha rivisto te.”
“Sì.”
“Non hai mai smesso di correre da lui…”

E non smetterò mai. Perché mi chiamo Marina

e la mia anima è nata lì, in riva al mare. Perché mi chiamo Marina e, il mare, è casa mia.

mercoledì 5 settembre 2018

Una cura per poter vivere

Il titolo dice tutto "Una cura per poter vivere", e già questo dovrebbe bastare, ma non basta mai... bisogna sempre aggiungere qualcosa, altrimenti non si va oltre, non si legge, non si va a fondo se non con le notizie gossip, se non con gli scandali.
Beh, questo E' uno SCANDALO.
Laura è una mia amica. Un'amica VERA, un'amica con la quale sono cresciuta, fianco a fianco, sin da bambina. Un'amica che ha 37 anni e due bambini e ha un cancro. Lo so, vi ho già raccontato la sua storia, ma come tutte le storie, insieme al tempo che passa si trasformano, salgono e scendono come montagne russe e, adesso, il treno della "giostra" spaventosa su cui si trova da due anni sta correndo pericolosamente verso il basso.
Da cosa è fatto, questo basso? E' fatto di cure che non hanno dato i risultati sperati e, soprattutto, di tempo che scarseggia.
Laura è una donna e una madre e un'amica e una figlia, e io ho vissuto "accanto" a lei gli alti e i bassi, le decisioni importanti, la sua continua e tenace voglia di non lasciare incompiuto nessun tentativo: Laura ha continuato a cercare e informarsi.
E non si tratta di un capriccio, non si tratta di un sogno o un progetto, che sono degni di lode, certo, ma non tanto quanto salvarsi la vita.
Perché è questo, che stiamo cercando di fare con questa raccolta fondi: salvarle la vita e provare a farlo un fretta. Le mosse di quell'animale che si chiama cancro non sono prevedibili e, adesso, è uno di quei momenti sospesi e decisivi.
IO CHIEDO A TUTTI I MIEI CONTATTI DI IMPEGNARSI.
Aprite questo link, LEGGETELO.
DONATE. DONATE QUELLO CHE POTETE MA DONATE!

P A R L A T E N E.
Parlate con i vostri contatti sui vostri social. CONDIVIDENDO E INVITANDO A DONARE.
Parlate con i vostri amici, colleghi, parenti, e DONATE e invitate a DONARE.
Passate parola, vi prego, passate parola a chiunque conosciate.
Raccogliamo quanto più possiamo, quanto più IN FRETTA possiamo.
In gioco c'è la vita.

Per chi lo preferisse, può donare anche tramite bonifico intestato a LAURA MARINGONI all'iban : IT48D0200846870000105014750. 
Specificate nella causale "DONAZIONE".