domenica 6 novembre 2022

Un soffio leggero...

 

Un soffio leggero, Marina Lizzi
"Non lo sapevo. 

Giuro che non lo sapevo.

Non lo sapevo che morire potesse essere così semplice e indolore. E non solo per il corpo ma anche e soprattutto per l’Anima.

E credevo che almeno avrei provato sollievo, che la disperazione della vita si dissolvesse come per magia e fossi invasa da quella pace meravigliosa di cui tanto si parla, quella che sogni ad occhi aperti quando hai paura, quando hai talmente tanta paura da sentire freddo.

Invece no.

Non ho sentito sollievo, non ho provato dolore. 

Ma ho udito un soffio, un soffio leggero.

E in un attimo ero... di là.

Ho udito solo quello, solo un soffio leggero, la sera in cui mi sono suicidata.  [...] 

No, non l’ho deciso a tavolino, non l’ho programmato, nessuna data fissata.

No. 

Non credevo, davvero, non credevo che l’avrei fatto sul serio.

Oh certo, ci avevo pensato al suicidio. Ci avevo pensato anche spesso.  

Sembrerà ridicolo, ma ho iniziato a provare nostalgia della vita molti anni prima di morire.

Ci avevo pensato, sì, ma solo pensato, per l’appunto. Un pensiero che come tutti i pensieri è astratto, nascosto lì, in un angolino della mente che, ogni tanto, nel buio, luccicava.

Luccicava per ricordarmi che esisteva. 

Che, in fondo, anche quella era una possibilità. "  

Un soffio leggero è in vendita qui...


.Mi preme dirvi e chiedervi alcune cose...

 

 

Avete presente quelle cose che rimangono lì a guardarvi storto finché non le mettete a posto? Che so, i calzini appena ritirati dallo stendibiancheria e posati su una sedia del salotto, il piatto da lavare della sera prima, un cassetto lasciato mezzo aperto che lo guardi e dà fastidio e ti sembra che, se non metterai via i calzini, non laverai il piatto o non chiuderai il cassetto, allora non riuscirai a fare molto altro di concludente, durante la giornata.

Ecco, questo libro è un calzino.

Un piatto da lavare, un cassetto… un cassetto rimasto aperto per troppo tempo e nel quale inciampavo continuamente facendomi un male cane.

È giovane e vecchio insieme (come il mio primo romanzo, “Le Anime di Heaven’s Hall”, che sia un vizio il mio?): giovane perché quando l’ho scritto lo ero anch’io; vecchio perché da quando l’ho fatto, sono passati molti anni.

E sono stati anni ricchi di rimaneggiamenti, di dubbi atroci, di domande dolorose e risposte incerte. Era nato con un parto doloroso e travagliato ma necessario e vitale, come ogni parto che si rispetti.

Era uscito da me, dal mio corpo e dalla mia anima, con una tale violenza da lasciarmi quasi sbigottita, ma dovevo fare i conti con il tema che trattavo: il suicidio.

Che brutta parola, eh? Come suona male, vero? Eppure esiste. Esiste e grida con una voce che non può non essere ascoltata e, io, avevo bisogno di darle spazio, di darle pagine e parole, di darle una storia, un nome, un corpo.

I libri, quasi sempre, servono a questo: iniziare un dialogo, lanciare una freccia, dare voce. Il resto spetta sempre al lettore.

Senza annoiarvi oltre mi preme dirvi e chiedervi delle cose.

Dirvi che no,   questo romanzo non contiene nessun giudizio, nessuna lezione, nessuna pretesa, soltanto una voce.

Chiedervi di essere clementi verso Marybeth, che è soltanto un nome che però ne contiene tanti, tantissimi altri.

Dirvi che è stato difficile, tremendamente difficile scrivere queste pagine.

Chiedervi di capirlo.

Dirvi che è importante, se avrete scelto di acquistarlo, leggere questo libro fino alla fine.

Chiedervi di avere pazienza.

Dirvi che la persona che lo ha scritto aveva sì e no vent’anni o poco più, ma affrontava da sempre la profondità buia e densa del dolore.

Chiedervi di non farvi ingannare dalle apparenze, nessuna apparenza.

Dirvi che, anche solo perché avrete acquistato questo libro, io vi vorrò bene e ve ne vuole anche Marybeth, o qualunque altro nome possa portare.

Chiedervi di leggere senza pregiudizio, dirvi che ve ne sarò grata per sempre.

Ho chiuso un cassetto, messo via i calzini e lavato quel maledetto, fottuto piatto che ristagnava nel lavandino da troppo tempo.

Le cose scomode sono sempre le più difficili da fare.

Ma anche le più utili.

 

 

Detto questo, prima di lasciarvi alla lettura, ho bisogno di dire dei “grazie” importanti.

Ad Alessandra, che ha letto ogni capitolo di questo romanzo durante la mia ultima revisione, nonostante il suo personale dolore: quello che hai fatto è prezioso, preziosissimo, ricordatelo sempre.

A Luca, il mio compagno, che quando ha letto questo testo mi ha abbracciato di uno di quegli abbracci che contengono tante cose impossibili da dire a parole.

A Katia, che in questi mesi (e non solo) non ha fatto che dirmi di credere in me, nel mio istinto, nello sguardo che vedevo allo specchio.

A Pamela, che è stata la prima a conoscere Marybeth e ad ascoltare il suo dolore: nulla si dimentica, MAI, quando ha avuto valore.

Ad Erika, la mia Sister: Rock’n’Roll, Sister, SEMPRE! - E in questa frase solo io e lei sappiamo quante cose prendono posto.

Ad Amelia, per tutti i suoi “Tu devi scrivere, la tua strada è quella: ricordalo!”

Perché questo libro, questo particolare libro, non avrebbe mai avuto nemmeno una chance se non fosse stato per loro.

 

 

Buona lettura, gente.

E se potete, non ascoltate mai, MAI, quella “puttana”.

Vi voglio bene.

Marina Lizzi


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